Il Pianto del Pierrot: Immagini dell’Innocenza Offesa
di Luciano Di Gregorio
C’è un’immagine che attraversa la nostra coscienza come una lama silenziosa: una donna in nero, dallo sguardo fermo e atemporale, tiene in braccio un bambino travestito da Pierrot. Il suo viso paffuto è rigato da lacrime dipinte, due gocce nere che sembrano tatuate dall’esperienza del dolore, nonostante l’età. È un’immagine costruita, ma più vera del vero. Un ritratto che trascende l’estetica per farsi etica, grido muto, denuncia visiva. È in questo spazio sospeso tra pittura e fotografia, tra sacro e grottesco, che si staglia una delle immagini più potenti dell’arte contemporanea.
Il bambino, mascherato da clown triste, è il simbolo dell’infanzia tradita. Ma non si tratta di una maschera da circo o da carnevale: è la maschera della Storia, quella che l’Occidente impone ai suoi spettatori per digerire l’indigeribile. A Gaza, i bambini non indossano costumi: indossano ferite. Non piangono con lacrime disegnate, ma con occhi sbarrati da bombe, esiliati da ogni diritto primario: la casa, la scuola, il sonno.
La madre in nero — ieratica, quasi mariana — si fa figura archetipica della madre mediorientale, dell’Addolorata contemporanea. La sua espressione è ferma, ma non rassegnata. È quella di chi ha attraversato il dolore senza cedere alla disperazione. Di chi ha perso tutto, ma tiene ancora stretto il poco che resta. Non c’è sentimentalismo in questo sguardo: c’è resistenza.
L’immagine è monocroma, come se il colore stesso fosse stato prosciugato dalla realtà. È un bianco e nero che richiama la fotografia della guerra, la pittura sacra, i manifesti del lutto. Eppure ogni dettaglio — la stoffa, il volto, le mani — è reso con una precisione quasi pittorica, che richiama la scuola fiamminga tanto quanto l’iperrealismo novecentesco. Un contrasto tra la bellezza formale e l’orrore sottinteso che paralizza l’osservatore.
In questo ritratto contemporaneo, l’artista sembra dirci che non c’è più alcuna distanza tra la scena artistica e la cronaca: che ogni bambino di Gaza è oggi un piccolo Pierrot. Il suo clownismo forzato — l’essere spettatore e vittima di un dramma scritto da altri — diventa la più brutale delle satire. E noi, che osserviamo, dove ci collochiamo? Siamo ancora spettatori o complici?
L’arte, quando è vera, non consola. Ferisce. Ci costringe a guardare dove non vogliamo. Questo ritratto — che richiama le icone bizantine, il pathos barocco, la fotografia di guerra — è un atto di accusa. È un urlo silenzioso che attraversa le pareti bianche delle gallerie per abbattere quelle di cemento armato che cingono le infanzie negate.
Che senso ha oggi parlare d’arte, se non per riportarla là dove serve? Se non per fare del gesto estetico una forma di testimonianza, di alleanza, di resistenza? In quest’opera, l’innocenza indossa il volto triste del teatro e ci chiede di non voltare più la testa.
E noi, finalmente, non possiamo più fingere di non vedere.