A Milano, tra le teche silenziose della Veneranda Biblioteca Ambrosiana, si consuma un dialogo feroce tra due epoche, due linguaggi, due visioni della caducità: da una parte la Canestra di frutta di Caravaggio, paradigma del naturalismo barocco, e dall’altra Natura morta, la scultura in marmo di Jago che sostituisce mele e fichi con pistole, mitragliatrici, fucili.
Il confronto non è solo estetico. È esistenziale.
Jacopo Cardillo, in arte Jago, si appropria di un’immagine familiare per compiere un gesto radicale: trasformare la metafora della vita che appassisce in quella della morte che prolifera. E lo fa nel modo più potente che l’arte conosca: spiazzando, forzando il linguaggio della tradizione per raccontare il presente con strumenti antichi. Il marmo, materiale nobile e immortale, non celebra più la gloria, ma denuncia una fragilità fatta di violenza strutturale e serialità produttiva.
Nel cesto di Jago non c’è più il frutto maturo, carico di dolcezza e destino, ma l’oggetto meccanico creato per uccidere, replicato all’infinito come un prodotto da scaffale. È una natura morta 2.0, dove la “morte” non è più processo biologico, ma atto industriale, strategico, sistemico. Ogni arma scolpita porta con sé non solo il suo potenziale distruttivo, ma il peso di una storia collettiva che ha smarrito il senso del limite.
Caravaggio, nel Seicento, mostrava frutti imperfetti, bucati, appassiti, e ne faceva metafora del tempo e della vanitas. Jago, nel XXI secolo, prende quella vanitas e la rovescia: oggi il “frutto” del nostro tempo non è solo fragile, ma attivamente distruttivo. È una natura che non marcisce, ma spara. Non decade, ma si arma.
Come afferma lo stesso artista: “Il frutto del nostro tempo non è più la vita, ma la distruzione.”
Parole dure. Ma necessarie.
E proprio perché scolpite nel marmo, si caricano di peso etico e storico. Non sono slogan, ma incisioni nella memoria. Il gesto scultoreo di Jago è paradossale: fissa per sempre ciò che dovremmo fugare, eternizza l’effimero per renderlo intollerabile.
La mostra “Jago e Caravaggio: due sguardi sulla caducità della vita”, a cura di Maria Teresa Benedetti e realizzata con Arthemisia, è allora molto più di un omaggio. È una sfida intellettuale e civile, un invito a guardare dentro al nostro tempo con lo stesso sguardo che Caravaggio rivolgeva ai suoi frutti: senza filtro, senza idealizzazione, senza pietà.
La Biblioteca Ambrosiana si conferma così spazio privilegiato per l’incontro tra memoria e coscienza critica. Dove la bellezza – antica o contemporanea – non consola, ma interroga.