L’opera in questione di Di Gregorio presenta una forte componente gestuale e astratta, in cui convivono elementi grafici, pittorici e materici che evocano tanto la scrittura automatica quanto il linguaggio del corpo. La composizione si articola su un fondo prevalentemente bianco e grigio, attraversato da una densa massa nera a forma arcuata che domina la scena come un gesto primario, quasi un ideogramma privo di codice. Accanto, un elemento rosso vivo rompe l’equilibrio cromatico con forza espressiva, introducendo un punto di tensione visiva che catalizza lo sguardo.
La figura – se di figura si può parlare – suggerisce vagamente una presenza antropomorfa, con una “testa” definita da un ovale composto da frammenti, trame grafiche e segni che ricordano calligrafie arcaiche o forme simboliche. Questo volto scomposto, disumanizzato, si configura come una maschera identitaria, forse emblema dell’alienazione contemporanea o della frammentazione del sé nell’era post-digitale.
L’opera gioca consapevolmente tra astrazione lirica e decostruzione formale: i livelli di grigio sembrano stratificazioni di memoria, mentre le superfici frantumate e le tracce di spruzzi alludono a un’esplosione silenziosa, come se l’immagine fosse il risultato di un collasso interiore.
Criticamente, potremmo leggere questo lavoro come una riflessione sulla perdita del centro, sull’impossibilità di stabilire un’identità univoca, sulla precarietà della figura umana nel caos visivo della contemporaneità. Ma c’è anche una tensione plastica, una forza compositiva che ricompone nel frammento una nuova unità espressiva. L’artista riesce a far convivere materia e vuoto, gesto e silenzio, in una dinamica che non risolve ma interroga, non descrive ma evoca.
Un lavoro che si colloca idealmente tra l’informale europeo e la grafica giapponese contemporanea, con accenti di espressionismo astratto e minimalismo visivo. Un’opera che invita a un ascolto visivo profondo, dove ogni forma è eco e residuo di una tensione più vasta.